Vittorio Feltri e l’amicizia con Nadia Toffa: ‘Spesso mi manca’
Vittorio Feltri ricorda l’amicizia con Nadia Toffa, ingenua ma saggia creatura che se n’è andata troppo presto: un estratto dall’ultimo libro del giornalista
Vittorio Feltri e l’amicizia con Nadia Toffa
Come tutti gli italiani – o quasi tutti – ho conosciuto Nadia Toffa guardando la televisione, quando era una inviata delle Iene, programma che poi arrivò a condurre con grande abilità e leggerezza. Ci incontrammo faccia a faccia nel mio ufficio, presso la sede di Libero, a Milano. Erano quelli i giorni in cui non si parlava d’altro che del caso Weinstein.
Harvey Weinstein, produttore cinematografico statunitense, era stato accusato da diverse star di Hollywood di molestie e violenze sessuali, e anche Asia Argento aveva raccontato di aver subito il medesimo trattamento. Non entro nel merito della questione. Mi limito a sottolineare che fu in quell’occasione che Nadia venne a intervistarmi riguardo a questa faccenda. Nacque così l’amicizia tra me e Nadia.
Diventammo due amici adolescenti, di quelli che il pomeriggio escono per mangiare il gelato insieme. Si trattava di un rapporto pulito, ingenuo, fresco. Nadia è stata una ventata d’aria pura nella mia vita. Mi sommergeva di messaggini simpatici, carichi di simboli come cuori, faccine che io non sapevo decifrare, non avendo dimestichezza con queste diavolerie della tecnologia. Eppure mi abituai a utilizzare le emoticon per adeguarmi e ricalcare la maniera di esprimersi di Nadia. Mi appariva giusto e gentile farlo.
C’era una simpatia tra noi, niente di peccaminoso. Abbiamo preso a telefonarci e anche a frequentarci, e devo ammettere che mi piaceva parecchio la sua compagnia, perché la giovane era intelligente, vispa, conversare con lei gradevole.
Una gioia ascoltarla
La relazione si è intensificata proprio pochi mesi prima della scomparsa di Nadia. Pranzavamo spesso insieme, e ogni volta che la vedevo mi sembrava in piena di salute sia dal punto di vista fisico che mentale. Così mi ero quasi dimenticato che una malattia terribile la stava consumando dall’interno, e pure delle terapie debilitanti a cui periodicamente ella si sottoponeva per tentare di combattere una guerra che a breve l’avrebbe vista sconfitta.
A causa di questa assiduità non soltanto mi sono affezionato, ma ho scoperto oltretutto che Nadia era una donna brillante, capace, volitiva, anche un po’ tignosa. Eppure garbata e sempre in grado di tenere una conversazione educata, dote oggi sempre più rara.
Però ciò che più mi colpiva di lei era l’animo da bambina. Il suo temperamento non era di quelli aggressivi, ella era addirittura ingenua. Non ci confrontavamo su questioni ideologiche. Discutevamo di noi, della vita, di fatti umani e sociali, e cercavo di confortarla senza essere invadente, o scadere nelle stucchevoli frasi fatte. Sorrideva e rideva sempre, non pianse mai se non una sera.
Ci ritrovammo a cena al Baretto io, Nadia, Azzurra Barbuto e Piero Chiambretti. Ero passato io stesso a prendere Nadia a casa, come usavo fare di solito ogni volta che si decideva di vedersi. In quell’occasione lei era effervescente più che mai, continuò a parlare per ore, a ridere, a scherzare, tanto che era persino difficile per noi altri inserirci nella conversazione.
Toffa era protagonista assoluta, pur non risultando affatto invadente o impositiva. Ascoltarla era una gioia, la sua allegria era contagiosa, sprigionava talmente tanta vitalità ed entusiasmo che nulla di lei faceva immaginare che fosse gravemente malata, tanto malata che le restavano pochi mesi di vita.
La grande voglia di vivere di Nadia
Non la tradiva neanche la parrucca che indossava in quanto, in seguito alle terapie, aveva perso i capelli. Neppure il gonfiore del viso, che non ne alterava la gaiezza. Sembrava che ella facesse di tutto per farci scordare la sua condizione, o che facesse di tutto per dimenticarla.
Ci mostrava con orgoglio una collanina che aveva fatto lei stessa proprio quel pomeriggio, con le sue mani. Vi erano attaccate delle lettere che formavano la parola “monster”, ossia “mostro”. Chissà perché quel vocabolo la divertiva tantissimo! La guardavo così lieta, e mi pareva di osservare una pargoletta. Provavo in quei momenti una tenerezza quasi dolorosa.
Per effetto di quell’atteggiamento forte e ilare nessuno al mondo avrebbe potuto dire che Nadia stesse per lasciarci. Appariva sull’orlo della vita e non sull’orlo della morte. Invece era in bilico tra una e l’altra. E poi accadde che Piero ci raccontò una storia d’amore che aveva vissuto qualche anno prima, e lo fece così bene che partecipammo tutti emotivamente fino a commuoverci, allora si spaccò improvvisamente quell’argine che Nadia aveva eretto e che riusciva a contenere il fiume in piena di emozioni che ella provava a ricacciare in fondo all’animo.
Scoppiò a piangere. Dal nulla ci disse, con una calma che faceva impressione e rendeva le sue parole ancora più taglienti, che non era più operabile, poiché il cancro si era insinuato in una zona del cervello non più raggiungibile chirurgicamente. Non le restava che bombardarsi ancora con la chemioterapia. E poi: “Io lo so che sto per morire. So benissimo che devo morire. Ma non piango per questo, sia chiaro. Sto piangendo per mia madre, perché lei perderà una figlia e questo non dovrebbe avvenire, non corrisponde all’ordine delle cose”.
In effetti, la dipartita di un genitore rientra in una dolorosa normalità. Ma quella di un figlio è qualcosa di innaturale, a cui non potrai rassegnarti mai.
Bisogno di sicurezza
Cercammo di consolarla con le solite frasi di rito, del tipo “Ce la farai”, “Vedrai che ne uscirai vincitrice”, “Non morirai, non pensare queste cose”. Eravamo tutti e tre sconvolti da quelle dichiarazioni, e allorché ti confronti con un patimento così grande, qualsiasi cosa tu dica ti risulta sciocca.
Lei ci ascoltava muta, si asciugava i lacrimoni e sembrava quasi apprezzare il nostro sforzo. Il coinvolgimento fu tale che alla fine al tavolino di quella sala gremita di gente tutti eravamo sopraffatti dalla malinconia. Ognuno per la sofferenza di Nadia e anche per le proprie sofferenze, quantunque più misere. Eravamo coinvolti, partecipavamo.
Cominciò a girarmi la testa, mi alzai per andare via e sulle scale scivolai sbattendo la testa. Nonostante abbia la capoccia dura, il colpo provocò un taglio, quindi fu necessario chiamare i soccorsi. Mi rifiutai di recarmi in ospedale, anche perché stavo bene. Però mi fu consigliato di rincasare subito per riposare. Azzurra avrebbe dato un passaggio a Piero e anche a Nadia, ma quest’ultima non aveva alcuna intenzione di lasciarmi.
La vidi in preda al panico, continuava a ripetere agli uomini della mia scorta che voleva salire in macchina con me e che fossi io ad accompagnarla a casa. Azzurra provò a rassicurarla, ma fu inutile. Nadia non si staccava da me, si agitava, urlava. Allora decisi di esaudire la sua richiesta, in quanto mi resi conto solamente in quel momento che Nadia aveva bisogno di sicurezza e che io, in qualche modo, quantunque acciaccato e ferito, riuscivo a trasmetterle questo senso di protezione. Neppure io volevo lasciarla, sebbene le mani di Azzurra fossero più che fidate.
Un dolore che non se ne va
Quella sera mi apparve per la prima volta fragile, proprio come lei non voleva assolutamente essere vista o considerata. Se c’era capitato altre volte di discettare di cose tristi, alla fine l’avevamo sempre messa sul piano dello scherzo. Credo che Nadia desiderasse in tale maniera esorcizzare il suo malessere, nonché la paura e la malattia stessa.
Ritengo che con me si distraesse, e che per questa ragione mi cercasse. Parlavamo tanto di questioni lavorative, ma anche di fenomeni sociali. Nadia si confidava con me, mi narrò la storia della sua giovinezza, i motivi che l’avevano spinta a intraprendere la carriera giornalistica nell’ambito della televisione. Era stata la sua prepotente e naturale capacità di interloquire con le persone con cui si rapportava, a indurla a fare TV. Provavo empatia e simpatia nei suoi confronti, cosa che non c’entra nulla con il sesso. Era diventata un’amica vera, e io ero tornato giovane con lei.
La morte di Nadia Toffa ha scosso tutto il mondo televisivo. Non soltanto per la sua ancora verde età, ma pure perché ella era straordinariamente amata nonché per la velocità con cui è accaduto tutto.
È un peccato che non sia più tra noi, poiché, se fosse sopravvissuta, avrebbe avuto davanti a sé una carriera sfolgorante. Tuttavia, la disgrazia per gli uomini e per le donne non è il morire bensì il nascere, ossia il venire al mondo. La mia amica Nadia mi ha insegnato la dignità della malattia e la capacità di parlarne senza autocompiacimenti o vittimismo, bensì unicamente con la lucida consapevolezza che il male che la invadeva e avanzava dentro di lei l’avrebbe presto portata al cimitero.
Spesso mi manca.
a cura di Vittorio Feltri