Alla ricerca di… Guillermo Mariotto e gli anni ’60 con Elena D’Ambrogio
Intervista a Guillermo Mariotto, tra gli ideatori di una mostra che fino a maggio, a Castel Sant’Angelo, celebra i fluttuanti Anni ’60
Roma celebra il Made in Italy con la sua eleganza e la giusta audacia, inaugurando a Castel Sant’Angelo la mostra The Sweet Sixties – Narrazioni di moda, curata da Guillermo Mariotto e Stefano Dominella.
L’obiettivo di questa esposizione, che si potrà visitare fino al maggio prossimo, è quello di riportare alla ribalta la moda degli Anni ’60. Un periodo in cui storia, musica e moda hanno dato vita a emozioni intramontabili.
Guillermo Mariotto, l’inflessibile giudice dall’animo tenero e gentile dell’ormai storico talent Ballando con le Stelle, ci racconta la dolcezza di quegli anni.
Mariotto, perché oggi sentiamo la necessità di recuperare gli Anni ’60?
“È una mostra che ha due anime. Una è ecologica, perché è un esercizio in cui si insegna come prendere dei pezzi vintage, tutti trovati nei mercatini, o da collezioni private, o prestati dalle Maison, e proporli ai ragazzi in maniera attuale. Non vuole essere una mostra storica, ma l’insegnamento ai giovani di come si possono fare rivivere degli oggetti, degli abiti, rendendoli un fatto molto divertente. Così, il recupero del vintage diventa il vero trend del momento.
La seconda anima ridà spazio alla ricerca del cambiamento, della libertà. Non è un caso aver pensato agli Anni ’60. La mostra parla della dolcezza del decennio fluttuante, teatro di cambiamenti epocali. I giovani hanno capito che mettendosi tutti insieme diventavano una forza importante, un fiume in piena che va ascoltato assolutamente. I giovani, con i loro ideali, che hanno saputo esprimere e manifestare, hanno operato il cambiamento”.
Una storia di coraggio ed emancipazione
La storia, interpretata dai creativi, vuole essere la testimonianza di ciò che si può fare partendo dal passato.
“Il passato ha dei valori bellissimi. Ha determinato nella moda un modo di vestirsi, di farsi riconoscere, e un senso di libertà”.
Una su tutte la minigonna.
“La minigonna per le donne è stata un passaggio fondamentale. Finalmente si è perso il tabù del ginocchio scoperto. Scendere in campo per rivendicare diritti, manifestare pensieri. È il modo per cercare cambiamenti che risultano necessari. E poi la gonna corta è anche una questione di agevolare un movimento fisico meno costretto, una liberazione”.
L’emancipazione femminile all’epoca ha fatto scalpore. Riproporla adesso vuol dire che la società ha bisogno di qualcosa di analogo?
“Soprattutto ricordare ai giovani che non serve rimanere legati a uno schermo retroilluminato, senza pensare, è un atteggiamento molto pericoloso. I ragazzi devono prendere coscienza, e questo non avviene attraverso uno smartphone o attraverso i vari lavaggi di cervello con i quali vengono omologati, senza personalità e senza individualità.
Insegnando all’Accademia degli Artisti vedo una strana anarchia, una ribellione. È come se i giovani avessero a disposizione, destinata a loro, una scatola preconfezionata e non ci vogliono davvero entrare. È quindi insito in loro il bisogno di ribellarsi. La mostra festeggia la ribellione”.
Quindi la dolcezza di cui si fa vanto in Sweet Sixties vuole indurre l’essere umano a essere meno passivo?
“L’essere umano non è passivo. Infatti a un certo punto si comincia a tramare, a discutere, e la passività potrebbe celare insofferenza che poi emerge. La mostra è uno degli esempi di come si possa guardare a qualcosa di bello traendone suggerimento, perché la moda va ammirata, va indossata, va vissuta. È elettrizzante, perché espressione della bellezza che abbiamo dentro e della natura che ci circonda da cui si traggono le ispirazioni”.
Insegnamenti ai giovani
Quanto si sente vicino ai giovani?
“Sempre di più, perché facendo moda sono obbligato a rinnovarmi. Quindi prendo ragazzi nuovi, stagisti, collaboratori, li faccio crescere per renderli consapevoli di quanto vanno bene così come sono, senza disagi, e poi permettere loro di crescere, far vedere loro il valore che hanno. Lo scambio tra di noi, anche come insegnante, è produttivo per entrambi: anch’io mi nutro delle loro fantasie, delle loro emozioni, della loro audacia. Anche delle loro insicurezze”.
Il suo modo di essere così severo, ma tenero e sorridente, cosa le ha dato e cosa le ha tolto?
“Ho lavorato molto su di me, detesto essere schiavo della mente. Mi piace essere ‘io’, e non la mente che elabora in continuazione pensieri come fosse un computer. Io, fin dal mattino, mi sento propositivo e soprattutto grato, con convinzione. Così non lascio spazio a pensieri negativi, e la moda mi aiuta a mantenere lo stato di benessere.
Questa mostra è bellezza pura e divertimento, la storia che insegna a ribellarsi ma a non dimenticare la fermezza e la dolcezza dei cambiamenti, la gioia di attraversarli e di vestirli, quindi di vestirsene.
Io insegno ai ragazzi come essere più presenti nella loro vita, come scacciare i pensieri nocivi, in maniera da lasciare spazio a quelli costruttivi, a come raggiungere i propri obiettivi, e glielo dimostro con esempi di vita. Avrei voluto avere qualcuno che lo insegnasse a me, da giovane”.
Una mostra per tutti
Chi entra a visitare la mostra, da cosa si aspetta che sia colpito?
“Una delle cose a cui tenevo molto per la mostra era di renderla allegra. La location è bellissima. Quando arrivi lassù il posto è magnifico, con una storia meravigliosa, con una delle viste più belle di Roma. È emozionante! Mette allegria, è una festa, infatti ci sono 5.000 presenze giornaliere.
Insomma, ho voluto il bello nel bello, perché fosse un divertimento di unione da passato a presente. La mostra è un souvenir di Roma. La direttrice del museo diceva che questa esposizione internazionale servirà anche per attrarre i Romani, che normalmente non vengono a vedere le loro bellezze”.
Se dovesse alzare la paletta per giudicare Sweet Sixties?
“Non la alzerei. Anzi, la alzerei con il mio zero per spronarmi a fare sempre meglio”.
Allora alziamo noi la paletta per lei, con un bel 10. Per rendere merito allo straordinario viaggio di atmosfere che ha creato, dove i 50 capi, distribuiti nelle 5 sale delle armerie superiori di Castel Sant’Angelo, prendono vita per fare cultura.
a cura di Elena D’Ambrogio