Alla ricerca di: Elena D’Ambrogio ricorda Gianni Agnelli
Il ricordo commosso e ammirato di Gianni Agnelli firmato Elena D’Ambrogio per Novella 2000: la scrittrice rievoca il fascino dell’Avvocato.
Il ricordo di Gianni Agnelli
Non si trattava di un soprannome, ma di una consuetudine, la cui origine era oscura quando intuibile. Alle alte vette della Fiat, la società fondata dal nonno senatore e resa importante dal padre, Gianni Agnelli era giunto in età molto giovane. Come un estraneo, come chi ha vissuto una vita totalmente diversa da quella che lo attendeva.
Era arrivato quando i giochi nella Fabbrica Italiana Automobili Torino erano da tempo impostati e consolidati. Come definire, quindi, la sua presenza? Attribuendogli una carica? Ma che non fosse impegnativa e determinante (direttore, capo, padrone, presidente…).
Il titolo di studio era la soluzione meno compromettente e impegnativa. Quindi l’Avvocato. Sì: andava bene. L’Avvocato. Con quella elle apostrofata che lo designava come “unico”, e ricordava quel vago rotacismo nel parlare che lo rendeva un po’ snob.
A qualche lustro dalla sua scomparsa (ricordo la data perché mio papà è mancato una settimana esatta prima) non viene spontaneo parlare di lui al passato, o del suo passato, quando si rievoca una personalità come la sua. Si può solo cercare di non dimenticare ciò che ne mantiene vivo il ricordo.
Personaggio indimenticabile
Perché l’Avvocato è un personaggio indimenticabile? Intanto per il mondo industriale che lo ha visto protagonista. Era molto giovane quando salì ai vertici della grande fabbrica automobilistica. “Non ha esperienza, non sarà mai all’altezza”, ci fu chi disse. “Imparerò”, fu la risposta. E Gianni Agnelli imparò.
Certamente non dovette essere indolore il passaggio dagli anni della bella vita, vissuta senza limiti e senza freni, quando non mancava mai a feste e divertimenti del gotha internazionale, quello che compare sulle riviste illustrate.
Ma quando assunse la responsabilità di dirigere l’azienda, lo fece con l’apporto di grandi e nuove idee, in una visione innovativa tale da renderla degna concorrente della Ford americana. Da vero cosmopolita introdusse un’idea moderna dell’industria automobilistica.
Nell’arco in cui si è sviluppato il Miracolo Italiano, per merito suo la Fiat è stata protagonista del miracolo economico che, con l’apertura di nuove fabbriche, diede un volto nuovo a Torino e all’Italia.
Amava spesso dire: “Ho messo l’Italia su quattro ruote, a spasso con la libertà”. Ed era vero: l’auto era diventata un mezzo alla portata di tutti, anche di quelli che la costruivano.
Aveva la capacità di percepire la vibrazione degli eventi, e questa dote aveva fatto di lui un imprenditore lungimirante, capace di precorrere i tempi, incapace di fermarsi. In una stessa giornata poteva essere la mattina a Parigi, a pranzo a Roma e la sera dello stesso giorno pronto per un evento nella sua Torino. E… tanto altro.
Certo, aveva un elicottero a sua disposizione. Ma anche le energie, il bisogno e la voglia di andare sempre avanti.
Il lavoro come missione
Questa sua predisposizione a porre l’azienda prima di tutto è un grande esempio da cui trarre ispirazione. Circondato, sostenuto e consigliato da nomi eccellenti dell’epoca, Agnelli ha reso la Fiat icona per eccellenza della nostra Nazione.
Probabilmente, provenendo dall’alta aristocrazia torinese, il fatto di fare soldi non era una sua necessità primaria, ma una condizione di crescita.
Ma per far crescere un’azienda bisogna averne la capacità e il prestigio. Non era neanche una questione di potere: la famiglia Agnelli era già famosa e potente. Il problema dell’Avvocato era affrontare i tempi, che non sempre gli sono stati fausti. Chi non ricorda gli scontri davanti ai cancelli di Mirafiori, l’insorgere delle lotte operaie, le dispute con i sindacati?
Il vero problema è che non è facile essere come lui. Era il simbolo dell’Italia che era in grado di fare, il simbolo della rinascita italiana.
Qualcuno sostiene che oggi sono tutti impegnati a far soldi e forse anche noiosi. Non so se sia vero, ma sicuramente i nomi di rilievo dell’imprenditoria successiva a Gianni Agnelli, fino ai giorni nostri, non sono dotati di quell’allure così singolare che ha contraddistinto l’Avvocato.
Un fascino unico
Perché la sua vita andava ben oltre il mondo imprenditoriale. Era coinvolto in tutto ciò che gli italiani amano: auto, sesso, sport. Era impossibile non notarlo, sembrava quasi un personaggio immaginario.
Le donne erano innamorate di lui e lui ne ha amate molte. Gli uomini lo ammiravano e avrebbero voluto essere come lui. Affascinante e attraente, disinvolto e cordiale. Apprezzava il coraggio come principio e lo allenava ogni giorno.
Sempre ad alta velocità, non poteva non avere nel novero delle sue aziende la Ferrari: velocità, sfida, bellezza.
Per contro, la pazienza gli faceva difetto. Addirittura era infastidito da atteggiamenti pavidi, indolenti e forse più idealistici. Non rientravano nel suo stile. E lo stile per lui era tutto. Ci teneva moltissimo: dalla cravatta con la parte anteriore più corta all’orologio sopra il polsino. Quanti lo hanno imitato… Persino lo stesso Valentino, che adorava vestire la moglie, Donna Marella Agnelli, ha ceduto al plagio.
Forse la sua indole potrebbe apparire vanitosa, ma non lo era. Oserei invece dire che, semmai, ha inventato la vanità. Del resto, avere stile è una dote innata e lui adorava essere Gianni Agnelli, adorava circondarsi del bello, lo considerava una condizione essenziale.
Immagino che vivere con lui facesse sentire dei super eroi. E probabilmente, per chi lo accompagnava, tornare poi alla propria vita doveva essere deludente. Magari più rilassante, ma senza quell’incredibile vortice mozzafiato che rende tutto impagabile, indimenticabile e quasi irreale.
Un ricordo di famiglia
Oltre alle varie testimonianze pubbliche e private, porto con me un ricordo di famiglia legato all’Avvocato.
“Sono Gianni Agnelli, parlo col dottor Navone? Posso congratularmi con lei?”. Lo voglio presentare così, con la telefonata che ci raggiunse a casa, il giorno in cui i sequestratori avevano liberato Giuseppe Navone, mio suocero.
Ho anche descritto questo episodio nella biografia di Navone Quando un uomo (Cairo editore; prefazione di Vittorio Feltri).
Aveva telefonato personalmente, senza farsi annunciare. Lui, l’Avvocato, in una delle rarissime volte, forse l’unica, in cui loro due, Gianni e Giuseppino, si parlarono lontano dallo stadio. L’uno presidente della Juve, l’altro vicepresidente del Torino, entrambi imprenditori. Anni in cui anche dopo un derby, qualunque fosse il risultato della partita, e qualche inevitabile sfottò, ci si stringeva la mano corredati da un sorriso di stima.
Quell’aria garbata, quel fare elegante, quell’appetito smodato per la vita, una vita molto fortunata, e negata ai più, non lo hanno esentato da dolori o errori. Ma lui era un po’ aristotelico: il bello e il buono facevano parte dello stesso pacchetto.