Gabriella Simoni: tutto sulla giornalista che fa tremare Putin
Gabriella Simoni in un’intensa intervista sulla guerra in Ucraina: i volti attoniti dei civili, il rumore incessante delle loro valigie, in uno scontro in cui la notizia è sorvegliata
Gabriella Simoni: i rumori della guerra
Tututum, tututum… Oltre a quello delle esplosioni, dei missili e delle bombe, la guerra in Ucraina ha anche il rumore dei trolley trascinati dai profughi che lasciano le loro case. “Quel rumore che attraversa il silenzio delle città è un tratto distintivo di questa guerra”, ci racconta Gabriella Simoni, inviata di Mediaset che è in Ucraina dal 25 febbraio scorso, il giorno seguente l’attacco dei russo. Una giornalista che ha raccontato tutte le guerre degli ultimi trent’anni “Tranne quella in Bosnia, perché nel 1995 è nato mio figlio”.
L’abbiamo raggiunta al telefono in un raro momento di respiro mentre è a Kiev.
Gabriella, com’è la situazione a Kiev?
“Rispetto ad altre zone del Paese, relativamente tranquilla. La guerra viene di solito raccontata come una battaglia continua, bombardamenti senza fine, città distrutte, ma non è così. Kiev ha subito un assedio ed è stata attaccata con missili. Kharkiv al contrario è sotto un continuo bombardamento con morti ogni giorno. Di Mariupol, controllata dai russi, quello che si sa è terribile, ma ci vorrà tempo per capire cosa sia successo fino in fondo. Non si devono confondere il fronte con le retrovie, bisogna raccontare tutte le verità che si vedono”.
Com’è il fronte?
“A Kharkiv senti subito un’atmosfera diversa, di tensione. Attraversi la città a centoventi all’ora, passi per quartieri deserti e completamente distrutti. È lì che da oltre 70 giorni bombardano tutti i giorni. Nel Donbass (la regione Sud orientale dell’Ucraina, ndr) nei villaggi abbandonati o abitati da poche persone, il fronte te lo trovi davanti all’improvviso dopo aver attraversato chilometri di nulla. Russi e ucraini si combattono casa per casa. Prima il silenzio, il nulla, e poi in un attimo tutto”.
I volti e le valigie dei civili ucraini
In cosa la guerra in Ucraina si distingue da altre guerre?
“Due sono le particolarità. Una è il controllo sull’informazione che si percepisce. Non puoi riprendere i militari, le armi di difesa, i posti di fermo. Ti chiedono di visionare il materiale che raccogli, di cancellare quanto non si può far vedere. Ovviamente siamo giornalisti, non dobbiamo rivelare informazioni strategiche. Ma è difficilissimo trovare informazioni per raccontare la verità”.
Come trovi le notizie?
“Nel modo che ti insegnano quando inizi a fare questo mestiere: seguendo i pompieri, le ambulanze, raggiungendo i punti da cui partono le colonne di fumo dopo un’esplosione. Andando nei municipi, e negli obitori, dove arrivano i corpi di chi è rimasto vittima degli attacchi. Oggi all’obitorio c’era la polizia francese, che sta raccogliendo informazioni sulle stragi di Bucha per il Tribunale internazionale dell’Aia”.
Qual è la seconda peculiarità che contraddistingue il conflitto in Ucraina?
“Il silenzio dei civili. Di altre guerre che ho visto ricordo persone che urlano la loro rabbia e la loro paura. Gli Ucraini hanno invece facce pietrificate, parlano poco, poi se si aprono scoppiano a piangere, sfogano il dolore tenuto dentro. E nel silenzio, senti il rumore dei trolley trascinati, quel ‘tututum tututum’ delle ruote che rimbalzano sulle strade dissestate. E ti chiedi ‘Cosa metterei io in una valigia se dovessi lasciare la mia casa bombardata?'”.
Cosa mettono nelle loro valigie?
“Il vestito nuovo per i figli, qualcosa di caldo, e gli orsacchiotti dei bambini per tranquillizzarli…”
Hai parlato della paura dei civili. Tu come affronti la paura?
“Sono concentrata su quello che devo fare, sulla ricerca di testimonianze che raccontino la verità. Non è che non hai paura, ma non ci pensi”.
Gabriella Simoni: un amore nato durante la prigionia
Cosa ti manca mentre sei in missione in un territorio di guerra?
“Gli affetti, la famiglia, gli amici. Per il resto, quando sono in missione vivo quello che c’è ogni giorno, mi adatto. Dormo dove trovo, mangio quello che trovo, e sono sempre concentrata sul lavoro. La passione mi spinge sempre a cercare nuove storie, ad approfondire. Poi quando torno a casa mi godo quello che ritrovo con ancora più intensità, consapevole della fortuna che ho, che abbiamo. Quando vivi la disperazione della guerra è difficile arrabbiarsi perché al semaforo suonano un clacson”.
In cosa invece le guerre si somigliano tutte?
“Nel prezzo altissimo che pagano i civili. Quelli che muoiono, quelli che scappano lasciando tutto, quelli che sono costretti a restare perché non possono andarsene”.
Da trent’anni racconti le guerre. Rimorsi per il tempo che non hai trascorso con tuo figlio?
“Mio figlio conosce il mio lavoro, fin da quando era piccolo sapeva che non sempre potevo esserci. Gli ho sottratto tanto tempo, ma quando ci sono sono presente davvero. E gli ho insegnato la passione. Ora è grande, fa il giornalista sportivo, di guerre non vuole sentirne”.
E con tuo marito Giovanni Porzio, anche lui reporter?
“Quando una coppia condivide il mestiere, se non subentra la competizione ci si appoggia, ci si aiuta. Ci siamo incontrati in Arabia Saudita nel 1991, entrambi lì per seguire la Prima Guerra del Golfo. Io, in quanto donna, non potevo guidare, lui mi ha aiutato. È una persona seria, compassata, l’opposto della mia toscanità. Tutti si sono accorti subito che tra noi c’era qualcosa, tranne noi. Siamo stati fatti prigionieri per otto giorni dalle truppe di Saddam Hussein. Non ci siamo più lasciati”.
a cura di Massimo Murianni