Appena diplomato, inesperto ma ottimista, mi recai a Londra con alcuni compagni e il maestro Pier. Colori, voci, sapori nuovi, bombardavano i miei organi di senso, inebriandomi e rendendomi fanciullescamente felice.

La metropoli cosmopolita brulicava di bellezze nordiche, diafane, eteree, con le loro cascate di capelli come oro filante e i glaciali occhi azzurri. Il contrasto con i familiari caratteri somatici mediterranei, la sensuale voluttà evocata dalle carnagioni olivastre, i messaggi torbidi di desiderio esotico che saettavano dagli sguardi corvini, accrescevano la curiosità reciproca di adolescenti alla conquista del mondo.

Il nostro inglese non era affatto eccellente come quello del Maestro che, evidentemente dotato di una materia grigia di tutto rispetto e di una faccia tosta senza eguali, intesseva fitti discorsi sui massimi sistemi con le disarmate valchirie, ammaliandole come un pifferaio magico, cercando di condurle sulla via del peccato. Noi poveri mortali, turisti per caso, sprovvisti di un’idonea favella internazionale, annaspavamo in quel mare di melensa dolcezza.

Facendo di necessità virtù, mi rivolsi a una coppia di avvenenti fanciulle in perfetta madrelingua chiedendo, “Siete italiane?”. La domanda suscitò curiosa ilarità e di rimando, dopo un’occhiata incredula, una richiesta di chiarimento, raggiunse le nostre orecchie: “What?”.

Da lì, se pur stentatamente, iniziò uno scambio di informazioni interetniche, preludio a una conoscenza di più intima natura, depurata dal filtro della nostra rozza e improbabile lingua inglese.

L’esperimento fu ripetuto più volte, sempre con ottimi risultati. La domanda “Siete italiane?” annullava magicamente ogni barriera di timidezza e riserbo, faceva schiudere le languide bocche al sorriso, dava il La a un apparentemente ingenuo e disinteressato scambio di battute.

Quel metodo di aggancio internazionale fu soprannominato senza particolare motivo “metodo Rampulla” e divenne il nostro cavallo di battaglia per l’intera vacanza.

Ancora oggi quando ripenso a quei momenti di spensierata incoscienza giovanile mi interrogo sui motivi del successo del metodo Rampulla. Probabilmente la domanda tranquillizzava le interlocutrici nella sua innocenza e imprevedibilità e dichiarava la nostra provenienza, suscitando la curiosità verso un popolo di proverbiali amanti romantici e passionali.

Il Maestro apprezzò senza riserve quell’inattesa immediatezza nell’approccio casereccio e la sua considerazione nei miei confronti crebbe enormemente. Pier mi confidò che aveva in programma un colpaccio senza precedenti; era venuto a sapere dell’esistenza di un collegio femminile alle porte di Londra, in un antico palazzo vittoriano dove venivano severamente educate le migliori figlie di Albione.

Il giorno seguente ci presentammo alla porta del collegio, abitualmente inaccessibile a giovani stranieri di sesso maschile, specie se aspiranti alle grazie delle collegiali.

Alla mia domanda su come avremmo fatto per entrare, il Maestro mi disse di mantenere la calma e annuire solamente. Si era procurato degli schizzi del prospetto del palazzo, avvolti in un cilindro di plastica che teneva sottobraccio come un provetto architetto.

Rispose alla portinaia dicendo nel suo fluente inglese che eravamo i due studenti di architettura della facoltà di Venezia in visita come preannunciato. Le ante del cancello si schiusero miracolosamente e ci venne incontro quella che avrei in seguito saputo essere la direttrice: “How do you do? Nice to meet you…” and so on!!

Il Maestro, perfettamente a suo agio, snocciolava una serie di complimenti sulle perfette proporzioni dell’edificio, tipico esempio di stile vittoriano, sottolineando come quel sopralluogo sarebbe stato estremamente utile alla stesura della nostra tesi di laurea. La direttrice, lusingata dall’interessamento dei due studenti italiani, sciorinava notizie sulla storia del palazzo che il Maestro fingeva di appuntare.

“Luca fai finta di disegnare qualcosa…” mi bisbigliava, e io timidamente cercavo di assecondarlo. Il mio animo era pervaso dal terrore di essere scoperti e svergognati, ma la sicumera dell’impavido Pier finì per conquistare anche me. Fummo con- dotti all’interno della struttura, visitammo le sale studio, la mensa, le camere delle educande che, schive ma incuriosite, ci lanciavano timide occhiate e si scambiavano complici commenti.

Fu un trionfo, l’apoteosi della sfacciataggine. Da allora, l’amico Pier divenne per me l’inimitabile e impareggiabile Maestro…

a cura di Luca Fiocca