Marlé Robinson: l’emozione nel colore
Marlé Robinson è creatività e cultura, astrazione e figura, vita e morte. Tutto sull’artista emigrata in Italia per opporsi all’Apartheid
Creatività e cultura, astrazione e figura, vita e morte: così potrebbe riassumersi la figura artistica di Marlé Robinson.
Orginaria della Repubblica del Sudafrica, si innamora dell’arte sin dall’infanzia, grazie alle lezioni della madre insegnante.
Frequenta dapprima la prestigiosa Oranje Meisieskool, a Bloemfontein, e poi la Tswani University of Technology, dove approfondisce la pittura e la Storia dell’Arte.
Si susseguono committenze importanti, per il Museo militare di Pretoria e per il Museo del Castello di Città del Capo.
Nella realizzazione dei lavori a lei facenti capo, l’estro prolifico rende l’autrice in grado di vagare attraverso molteplici possibilità di espressione offerte da forma e colore, mentre la cultura va a costituire quel sostrato di contenuti cui la sua immaginazione si lega per palesarsi e veicolare messaggi.
Si oppone all’apartheid trasferendosi in Italia, dapprima a Napoli poi a Roma.
A diretto contatto con l’oggetto dei suoi studi, l’emozione si trasforma in sentimenti appassionati. La piena capacità volumetrica di Michelangelo le riempie gli occhi, nutre e accresce il suo desiderio di bellezza.
Mani, braccia, figure diversamente atteggiate reclamano l’intera superficie della tela. L’essere umano concepito dall’artista non soffre di macromania, ma è lacerato da dissidi interiori, combatte con la sua finitezza in perenne lotta per raggiungere una meta, un obiettivo verso cui indirizzare l’esistenza.
Quell’insanabile distanza tra carne e spirito genera una tensione da cui viene a dipendere tutto il virtuosismo della Nostra, e quanto più tornite sono le muscolature tanto più fluidi si fanno i passaggi tonali nelle composizioni astratte.
Il legame tra la figurazione e l’aniconicità è il sangue, la vita e la morte al contempo, fasi di un ciclo che si ripete dalla notte dei tempi, e con cui il Maestro si confronta rivelando un gusto decadentista.
In Joseph’s dystopia ella si avvale di una prospettiva insolita, volta a esaltare le parti anatomiche di una fisicità sospesa, a mezz’aria, su uno sfondo non caratterizzato, tra bianco e nero.
Tutta l’economia dell’opera viene a dipendere dalla diagonale derivante dalla posizione del corpo e da quella tracciata dalla scia di liquido organico colante, che sembrano trovare una congiunzione a livello dell’organo maschile, simbolo primigenio di vita e qui insanguinato, inerme. Ne risulta un chiasmo, un’opposizione di forze che si equilibrano nella agognata cessazione del dolore.
a cura di Ariadna Caccavale