Milano Fashion Week – Aperte le gabbie.
Mentre a New York ancora si discute se Mark Jacobs avesse o meno il diritto di mettere i dreadlock stile…
Mentre a New York ancora si discute se Mark Jacobs avesse o meno il diritto di mettere i dreadlock stile “rasta” in testa a delle modelle bianche, buttando un nuovo saporitissimo ingrediente nel traboccante pentolone del chissenefrega (mirabile la risposta dello stilista che ribatte alle accuse di indebita appropriazione culturale sottolineando come nessuno abbia nulla da eccepire sulla scelta di molte donne di colore di farsi stirare i capelli) a Milano hanno aperto le gabbie.
Ancora una volta non sono gli abiti a fare scalpore, ma chi li guarda.
Le collezioni si susseguono ordinatamente secondo il calendario stabilito dalla Camera della Moda, ogni maison mette in passerella le proprie proposte per l’estate 2017 dando ancora una volta nuovo, irrefrenabile impulso ad un sistema che negli ultimi 12 mesi ha doppiato la crescita del PIL nazionale e rappresenta la seconda voce più importante della nostra economia.
E fin qui tutto bene. Molto bene in alcuni casi, molto meno in altri, ma tutti i gusti sono gusti e se c’è chi compra, perchè non vendere?
L’asino ahinoi casca (dai tacchi) non in passerella ma nel parterre: chi vi scrive ha il piacere e il privilegio di ricevere alcuni -non molti per la verità- inviti, che puntualmente onora con la propria presenza, facendo in modo di non perdersi nemmeno un outfit ma incapace di rinunciare al piacere di osservare chi lo circonda.
Ebbene in questi primi due giorni ho visto:
– ragazze dall’aria inebetita scattare foto a se stesse mentre a meno di un metro dal loro impeccabile nasino stava andando in scena un capitolo nuovo della storia della moda.
– ciondolanti redattrici dai capelli unti che ciabattando mollemente si arrampicano con la mestizia dipinta in volto, alla ricerca del proprio posto a sedere
– Bizzarri elementi dalla sessualità non fluida, gassosa, alla disperata ricerca di un flash, fosse pure quello di un autovelox
– Uffici stampa carichi di giubbotti da gettare sugli invitati per il minimo tempo necessario a scattare una foto a immarcescibile memoria di una sfilata in cui gli abiti di collezione sembrano essere indossati dal pubblico più che dalle modelle
– fotografi in ginocchioni al centro della carreggiata, intenti a fotografare la baraccona di turno impanata di lustrini alle nove di mattina, salvo poi chiedersi l’un l’altro chi fosse l’oggetto dei loro incontenibili desideri
– Ridicole spilungone allampanate con indosso una maschera nera a coprire il volto e al seguito levrieri afgani dall’aria rassegnata, passeggianti in pieno giorno, in pieno traffico, in piena.
– indaffaratissimi e bonissimi addetti alla sicurezza indaffarati nel tentativo di comprimere folle indisciplinate entro i confini di un campo che pare minato.
– per ultima una triste constatazione, figlia -lo giuro- dell’esperienza e non del pregiudizio: l’estrema maleducazione delle comitive di cinesi che, forse ignari delle regole basiche del vivere comune, forse convinti che la ricchezza giustifichi la malagrazia, spingono, urtano, calpestano e travolgono tutto ciò che trovano. Compresa una innocente signora timidamente seduta sulla sua sedia a rotelle.
E siamo solo al secondo giorno.