Paolo Palumbo è il protagonista dell’intervista settimanale di Novella 2000, a cura della psicologa Barbara Fabbroni, per la rubrica Scuola di Seduzione

Voleva diventare, ma a diciassette anni la diagnosi di Sla ha cambiato tutto. Paolo Palumbo poteva chiudersi nel suo isolamento, invece ha deciso di lottare. Oggi, dopo sei anni dalla tremenda scoperta, continua a vivere, non sopravvivere: è stato ospite dell’ultimo Sanremo, l’anno prima ha partecipato a Sanremo Giovani, scrive canzoni, l’ultima per Pago.

Paolo, la diagnosi ha sconvolto la tua vita e quella della tua famiglia, cosa vi ha dato la forza di reagire?

«Il giorno della diagnosi, amici e parenti erano distrutti. L’unico modo per uscire da quel velo di disperazione era reagire con il sorriso. Ho detto: “Se voi piangete, io cosa dovrei fare?”. Piangere non mi avrebbe guarito. La Sla è una malattia che contagia chi ti circonda, non in senso cellulare, ma psicofisico. Sei dipendente dagli altri, le vite degli altri dipendono dalla tua salute e dai tuoi bisogni. È una malattia che ti obbliga all’organizzazione, alla dedizione, all’altruismo, implica centinaia di variabili umane da insegnare anche a chi è adulto e vaccinato. Non si può perdere tempo a piangere con un nemico così tenace».

Cosa facevi nella vita prima?

«Ero chef, studiavo per diventare un cuoco di prim’ordine. La Sla si è presentata prima che potessi frequentare l’Accademia di Gualtiero Marchesi. Ma la malattia non mi ha fermato, ha solo cambiato l’estetica del mio stare in cucina: sono chef, ma ho bisogno di braccia che mi aiutino ai fornelli. In questo, mi aiuta mio fratello Rosario».

Com’è il rapporto con Rosario?

«Rosario è tutto! È il mio sangue, il mio miglior amico, un collega instancabile, una mano tesa dal cielo, il compagno di giochi, una figura genitoriale, ma anche uno di cui mi voglio prendere cura come un figlio. Rosario è i miei sensi, i miei arti, la mia voce, la nostra connessione ci rende una cosa sola. Non potrei esistere senza di lui, il sacrificio che vive pur di starmi accanto. È la rappresentazione della parola “amore”. Credo in Dio, perché se non ci fosse, non avrei al mio fianco un an- gelo come Rosario»

Hai detto che tutti ti vogliono bene.

«Continuo a dirlo. Per me è inutile vivere se non posso farlo con sincerità. Questa società ci ha messo nella condizione in cui esprimere odio ci sembra più facile che esprimere affetto, io ho deciso di vivere nella luce. Amo tanto, ho tanto da dare. L’unica cosa che può succedere, è che ci si senta meglio entrambi, è cura per lo spirito».

C’è un “ti voglio bene” che non hai detto?

«No. È una lezione importante: non bisogna dare per scontato nulla, quando si tratta di rendere gli altri consapevoli dell’amore che si prova nei loro confronti bisogna dirglielo subito e non trattenersi».

Secondo te perché le persone si mascherano dietro a un personaggio e non mostrano la loro parte migliore?

«Perché sono i primi ad avere paura di guardare se stessi e scoprire cose che preferirebbero non sapere. La vita è un viaggio dentro di sé, è un viaggio attraverso il mondo. Indossiamo una maschera per proteggerci dalle intemperie, poi finiamo per dimenticarci che era solo una maschera. Questo ci distrugge. Sto facendo del mio meglio per portare fuori dalle mura di casa mia un messaggio di accettazione».

Quanto è importante sorridere?

«È fondamentale, anche a livello scientifico. Sforzarsi di sorridere quando si è di cattivo umore attiva una serie di meccanismi che ci rigenerano interiormente. Ho perso gradualmente l’uso dei muscoli, ma riesco a inclina- re la bocca per esprimere un sorriso».

Hai dei rimpianti?

«No. Ho sempre fatto quello che volevo, nel rispetto di me stesso e degli altri. La malattia ha cambiato tutto, ma fino al giorno prima di ricevere la diagnosi potevo dire di aver agito secondo la mia volontà. E da quando è subentrata, nei limiti che mi concede, mi muovo in totale libertà».

Sei un rapper che sa raccontare l’in- tensità delle emozioni. Come nasce la tua passione per la musica?

«La voglia di fare musica è una conseguenza della mia voglia di comunicare quello che ho imparato nel corso del tempo, gli insegnamenti e l’umiltà che ho colto. La canzone permette di essere coincisi, poetici, suscitare emozioni forti in poco tempo, di sperimentare con la tecnologia».

Hai perso la parola.

«Per me, che scrivo rime e le rappavo, non è stato facile. Nella sfortuna però, ho trovato la possibilità di fare qualcosa di importante per me stesso e per chi come me, ha gravi disabilità».

Quando hai ripreso a cantare?

«Ho iniziato a usare il comunicatore per cantare un anno fa, quando sta- va prendendo forma il progetto musicale che mi ha portato sul palco dell’Ariston».

L’ispirazione della tua canzone Io sono Paolo da dove arriva?

«È a doppio senso. Cristian Pintus, rapper con cui ho condiviso la canzone, mi aveva colpito per un brano scritto in memoria di suo padre, morto di Alzheimer. Quando ci siamo conosciuti siamo diventati amici fraterni, c’era un legame profondo, una specie di dolore comune. Dopo il primo incontro, lui ha cominciato a scrivere una canzone dedicata alla mia storia, io ho cominciato a scrivere frasi che aveva- no un ritmo che funzionava. Abbiamo unito le forze creative».

Dici: «Nella vita di ognuno di noi c’è un sogno da realizzare». Il tuo qual è?

«Il primo è vivere sereno, con la consapevolezza di essere ancora lucido, entusiasta, pieno di idee, progetti, con una famiglia sorridente. Il sogno che riguarda il mondo fuori è portare un po’ di pace e voglia di vivere nelle persone che hanno perso la speranza».

Cosa ha significato l’Ariston?

«Tornare a esibirmi è stato un desiderio fortissimo che non ho mai abbandonato. Grazie all’impegno della mia famiglia, ma soprattutto di mio padre Marco, questo desiderio sta diventando sempre più realtà. Con il Maestro Enrico Melozzi e Antonio Conte abbiamo provato più strade per farmi tornare a cantare, nessuna ci convinceva finché Melozzi non ha trovato chi potesse ricostruirmi la voce digitale attraverso il campionamento di vecchi video e messaggi vocali. Quando poi Melozzi mi ha suggerito Morgan per completare il quadro mi ha fatto piacere. Potermi esibire e portare i miei messaggi è la cosa più importante».

Tornerai all’Ariston nel 2021?

«È un segreto! Ma ci sto lavorando».

Roberto Alessi, direttore di Novella 2000, ha detto di te, da Eleonora Daniele: «Paolo ha illuminato Sanremo, ha deciso di difendere la vita, di portarla avanti nonostante la sua condizione. Lui e suo fratello sono vere star». Ti senti una star?

«Sono onorato di queste parole, ma non mi sento star. Sono una persona che nella “tragedia” è stata fortunata. Abbiamo portato su quel palco una storia semplice, se abbiamo illuminato i cuori di qualcuno, potremmo essere chiamati stelle, ma per il momento siamo più come due candele nella notte. Il vento ha provato a spegnerci, ma non c’è riuscito».

Hai tanti fan. Ti fa piacere?

«Ogni giorno ricevo messaggi straordinari di persone che mi ringraziano per aver dato loro la forza di combattere la loro battaglia personale. So come ci si sente. Anche io ho i miei eroi, cui va la mia gratitudine. Sapere di essere una specie di eroe per molti è una responsabilità, ma porta consapevolezza: quella che l’amore puro genera amore puro a sua volta, in un circolo virtuoso infinito».

La tua voglia di metterti in gioco è in- credibile: dove trovi la forza?

«Dall’amore della famiglia che, amandomi da quando sono nato, mi ha insegnato ad amare me stesso. L’amore guarisce lo spirito e il mio spirito sta bene».

C’è qualcosa che non hai raccontato?

«Si! Me ne viene in mente una».

Ti va di raccontarcela?

«Poco tempo dopo la diagnosi di Sla, sono andato a Milano per accertamenti. Durante il soggiorno, sono andato in giro per l’ospedale (all’epoca potevo ancora camminare, anche se con difficoltà). In una stanza stava avvenendo una situazione drammatica: c’era una famiglia non italiana, evidentemente in difficili condizioni economiche, con il figlio di un anno bloccato a letto dalla Sma. La Sma è sorella della Sla, differisce nell’età in cui si presenta: la mia malattia viene nel corso degli anni, di solito in tarda età, mentre la Sma colpisce i neonati, che nascono con la sola possibilità di muovere gli occhi.

Ho guardato negli occhi il bambino. In quelle due pupille rigogliose di vita c’era il mondo intero. Allora ho infranto le regole, sono uscito dall’ospedale con mio fratello, siamo andati a comprare un gioco da appendere sopra la culla, poiché il bimbo altro non vedeva che il soffitto. Siamo tornati dalla famiglia, gli abbiamo donato il gioco, che ha illuminato lo sguardo del piccolo, dandogli un motivo per cui tenere gli occhi aperti su questa terra. Ci fanno credere che tutto sia complicato, la verità è che la felicità sta nelle cose semplici».

Il 16 agosto è stato il tuo compleanno.

«L’ho trascorso con la mia splendida famiglia. Ogni anno quando arriva quella data facciamo una grande festa. Siamo molto numerosi: i miei genitori hanno tanti fratelli, quindi ho molti cugini che portano i loro compagni e compagne. La casa si riempie di vita, l’atmosfera ricorda Natale: nemmeno la mia condizione è in grado di scalfirne la positività. Ridiamo e scherziamo fino a tardi, come ci è sempre piaciuto fare e come ci piacerà sempre».

Hai tante persone vicino: in questo sei fortunato, non credi?

«Nella difficoltà di una situazione fisica molto complessa, mi ritengo una delle persone più fortunate che conosco. L’importante è essere circondati da persone che amano in modo incondizionato, senza tornaconto. Se sono due o cento non importa, basta che il sentimento sia sincero».

Sei credente o religioso?

«Si dice che il religioso viva di sforzi, il credente viva di certezze. La mia vita è la prova che di certezze ne possiamo avere poche, ma quelle poche sono indissolubili. Credo profondamente in Dio, in valori come generosità, altruismo, bontà e pace. L’incontro con Papa Francesco ad esempio è stato uno dei momenti più travolgenti che abbia mai vissuto, perché ho fede nell’idea che ci vede come canali tra l’essenza dell’universo e il mondo terreno. C’è un velo tra noi e l’Altissimo. La vera domanda che mi pongo è: sarei religioso se non mi trovassi relegato in un letto dalla mattina alla sera? La mia risposta è sì. Penso di essere una brava persona».

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

«Scrivo tanto. Sto collaborando con diversi artisti. Vorrei una cosa diversa dal classico disco fatto per cavalcare l’onda della visibilità. Ho capito che il mio ruolo è sperimentare. In questo percorso di immobilità, mi sono imbattuto nella musica, che per me è una cosa ampia: usare un sintetizzatore vocale apre a numerose possibilità di esplorazione del suono e di avanzamento tecnologico. Nel mio piccolo vorrei riuscire a innovare e dare la possibilità di comunicare ai malati».

Un consiglio a quelli che si arrendo- no di fronte alle piccole avversità.

«Vivete intensamente il presente, non rimanete ancorati alla nostalgia del passato, non costruite castelli in aria delegando al futuro ciò che sognate. Progettare è fondamentale, sognare in grande pure, ma ciò che saremo domani e che ci renderà persone felici dipende da quello che stiamo facendo in questo preciso istante».

Grazie Paolo di avermi dato la possibilità di incontrarti, conoscerti e accogliere ogni tua parola come insegnamento di vita.

A cura di Barbara Fabbroni